Neanche Celentano possiamo scomodare per raccontare la storia del campo di via Pazienza, la stradina che dai confini di Partanna porta a Mondello paese. Perché “laddove c’era l’erba” sarebbe un ritornello del tutto inappropriato per questo campetto che ha svezzato diverse generazioni di piccoli calciatori, ma il cui fondo era in terra rossa. Un campo che non ha mai avuto un nome, né ufficiale né ufficioso come accadeva a molti stadi improvvisati di Palermo, ma che fa parte della storia del calcio della nostra città.
IL PALO A CENTROCAMPO
Dicevamo, era di terra rossa e fin qui poco male, tanto che le cadute non producevano l’effetto grattugia e i rimbalzi della palla – guai in quel contesto a chiamarlo pallone – erano più o meno regolari, specie se i calciatori più esperti bonificavano il terreno prima della partita, arroccando nel lungo vialetto d’ingresso le pietre che giorno dopo giorno sembravano auto generarsi. No, in questo campo la controindicazione era un’altra, l’insidia ignorata con robusta dose d’incoscienza persino dalle madri che in estate evidentemente riducevano il loro tasso d’apprensione, era costituita da un palo della luce con acclusa piccola piattaforma di cemento che si ergeva all’altezza del centrocampo, poco spostato sulla destra guardando la montagna che sovrastava la zona con il suo carico di roccia e vegetazione spontanea.
JAJALO E IL CODICE ETICO
Presenza ingombrante che talvolta costringeva a inusuali dribbling per i quali era necessaria la stessa abilità di uno sciatore alle prese con lo slalom speciale. Secondo la storiografia non ufficiale, quella particolare finta che usiamo chiamare veronica e che persino Jajalo talvolta si consente, nacque proprio su quel campo, altro che in sudamerica. Arma strategica nel calcio moderno, strumento di sopravvivenza a Partanna se non volevi sbattere sul più granitico dei difensori. In questo campo, soprattutto d’estate, si giocava dall’alba al tramonto, eppure nessuno mai finì per dare una craniata sul palo, mai nessun incidente, persino le furbate era proibite da un codice etico non scritto ma da tutti accettato. Nelle sue vicinanze si firmava una tacita tregua tra difensori e attaccanti, guai a sfiorarsi, ma cornuti dei padri se si approfittava del palo per fare melina o mettersi al rifugio dal contrasto sgradito.
VIVA LO SLANG, CORNUTI DEI PADRI
Cornuti dei padri e buttanaetomà, lo slang da imparare in fretta. Guai a farsi intimorire dal frasario che i calciatori indigeni imponevano al nucleo dei ragazzini villeggianti. Bisognava adeguarsi per sopravvivere. Nonostante la proprietà del campo fosse di una famiglia di “cittadini”. Ma i Marrone il loro diritto di proprietà lo esercitavano con giudizio e per questo erano più che benvoluti dall’intera popolazione della borgata. Tre di loro erano pilastri della nostra squadretta, Pino per diritto di stazza e di carisma, Sergio per il dono che il dio della palla gli aveva fatto sino dalla più tenera età, il terzo, sempre Pino si chiamava come quasi tutti i nipoti del patriarca, ma di cognome faceva Bottone. La sua sporadica assenza non era vissuta come un dramma. Poi c’era Roberto, gran portiere che tutti noi pensavamo si chiamasse Guttadauro perché abitava dentro alla clinica per malati di mente che confinava con il residence Marrone. Mezzo secolo dopo scopro che non è così, ma ciò in fondo aumenta il fascino di questo ragazzino che dovevamo pregare per giocare con noi e sobbarcarsi le rituali malafiure.
LA MIKELEIA, CHE SQUADRONE
Tuttavia i veri eroi di questo campo erano i campioni della Mikeleia, squadra che doveva il suo nome al fondatore, Michele per l’appunto, che di cognome faceva Lo Monaco. Figlio dei proprietari del bar Galatea, centrocampista che sapeva far tutto, un fascio di muscoli in un fisico asciutto tipo Pantani, perennemente abbronzato di un sole catturato già a marzo, perché d’estate il lavoro era tanto e la spiaggia era un lusso, anche se per la squadra il tempo lo trovava sempre. Riuscì non sappiamo come a farsi mandare dalla Panini le maglie blu che la Mikeleia indossava come il vestito della festa, solo per le occasioni importanti. Abitualmente questi mostri giocavano a petto nudo, ad eccezione del portiere. Lo scudiero di Michele era Furino, preciso preciso nel fisico e nel gioco al mediano della Juve. Era il postino di Partanna, per noi ragazzini un vicedio ma solo perché al primo posto c’era sempre e comunque Michele nonostante quello che faceva i gol (e strage di ragazzine, come un Bobovieri ante litteram) fosse il suo fratello Pippo.
IL CALCIATORE E IL GIORNALISTA
In quel campo passava di tanto in tanto anche Ignazio Arcoleo che essendo già nell’orbita del Palermo si concedeva poche volte, almeno d’estate. D’inverno – raccontano dal quartiere – protetto dal silenzio dei suoi amici, era un’altra musica e anche lui s’è confrontato con la leggenda del palo. Da quelle parti è passato anche qualche vip dei tempi nostri come Roberto Alajmo, arruolato nell’odiatissima squadra di via Stesicoro (odiatissima perché più forte e con un invidiabile codazzo di mini groupies), a conferma che sin da piccolo sapeva in partenza da quale parte stare.
Il BOMBER IN GONNELLA CHE FINI’ IN NAZIONALE
Su quel campo, con il consenso dei Marrone, nel tardo pomeriggio dei giorni dispari di agosto, si allenava anche La Sirenetta, prima squadra palermitana di donne nelle cui fila c’era un attaccante tutto pepe che arrivò sino alla nazionale. Si chiamava Liliana Mammina, ma a Palermo dribblò una sola estate, poi per realizzare il suo sogno dovette abbandonare al loro destino le prime compagne del cuore.
LE NOTTURNE CON I FARI DELLE AUTO
In quel campo ho fatto gol che non dimenticherò mai (per esempio quelli a mio padre in versione portiere) e trascorso intere ore senza toccare palla, lasciato qualche striscia di pelle e un pezzetto di cuore. Nel ’70, dopo le partite dei campionati del mondo del Messico – quelli di Italia-Germania 4-3, per intenderci- si andava al campo per partite in notturna rese possibili grazie all’illuminazione dei fari delle macchine. E un bambino come me, cresciuto con il pallone unico e amatissimo compagno di giochi, queste cose se le porterà appresso sino al fischio finale. Di quel campetto di via Pazienza, che offriva anche noci, fichi e melograni come premio partita, ormai non c’è traccia. Al suo posto un residence che ha cancellato il luogo fisico ma non la memoria collettiva di centinaia di calciatori. Perché noi, da Michele al sottoscritto, calciatori lo eravamo dentro, nell’anima e nei sogni. E quel palo ha segnato un punto cardinale della nostra esistenza al tempo in cui l’anima era pura e i sogni non avevano confini.
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