Giovani, con i pantaloncini corti e per giunta donne. Non erano un club ufficiale, ma solo un gruppo sportivo (tutt’oggi le donne sono considerate dilettanti e non professioniste). Il Coni tentò di dissuaderle e l’ingegnere Giovanni Di Salvo nel suo libro Le pioniere del calcio racconta che “Leandro Arpinati (il Reggente del Coni fino al primo semestre del 1933), pur riconoscendo come inopportuna la diffusione del calcio femminile in Italia, concedeva l’autorizzazione a giocare a pallone. Ma l’attività doveva svolgersi senza pubblico per non destare scalpore”. A quel punto il calcio divenne solo sfondo per una questione di principio.
MA PERCHE’ NON FATE ATLETICA, MAGARI LA PALLACANESTRO
L’anno prima si erano disputate a Los Angeles le Olimpiadi. L’Italia si era posizionata seconda dietro agli Stati Uniti e con sé neanche un’atleta di sesso femminile (102 atleti, tutti uomini). Si aprì così un dibattito sull’apporto che le donne avrebbero potuto dare allo sport olimpico: “Ci furono dei vertici – spiega Di Salvo – e si stabilì che le donne potevano sì fare sport ma solo discipline olimpiche, non il calcio quindi”. Vox populi giustificava così: “Giocare a pallone avrebbe potuto creare problemi all’apparato riproduttivo femminile”. Affermazione che però non trovava riscontro nel mondo medico e scientifico.
TENERE IN ORDINE LA CASA E PORTARE LE CORNA
Non sono certo un segreto i manifesti di concorsi demografici del periodo e neanche alcune frasi attribuite al duce come “le donne debbono tenere in ordine la casa, vegliare sui figli e portare le corna”. Il fatto è che le donne continuarono a giocare a calcio e l’esempio del gruppo sportivo milanese (che contava fra le sue circa trenta giocatrici anche Rosetta Boccalini che poi vincerà alcuni scudetti con l’Ambrosiana Milano nel basket) contagiò anche le province vicine. Ad Alessandria si venne a creare una situazione analoga, ma di gravità superiore. Questa volta ad aprirsi al calcio femminile è un club ufficiale e anche a Roma, Bologna, Torino e Parma si vuole fare lo stesso.
IL DIVIETO DEL REGIME FASCISTA
Il regime fascista dovette intervenire. Il Coni sostituì Arpinati con Achille Starace alla reggenza. Presa coscienza della volontà delle squadre di voler organizzare un’amichevole, si mise in moto per vietare l’incontro. “La gara Milano – Alessandria si sarebbe dovuta svolgere il primo ottobre 1933, ma arrivò il rinvio prima di due settimane, poi a data da destinarsi e infine, non si giocò più”, Giovanni Di Salvo ha ricercato per tre anni documenti e tracce dell’accaduto nelle biblioteche di tutta Italia, si emoziona mentre ci racconta questa storia che sembra appartenergli e dalla borsa tira fuori un ritaglio di giornale di quell’anno: il divieto del regime fascista era precipitato sul calcio femminile.
NIENTE PIU’ CALCIO PER UN PREGIUDIZIO
La notizia arrivò sia alla squadra alessandrina dove militava Amelia Piccinini che pur di continuare a fare sport si dedicherà all’Atletica, sia alla squadra milanese dove la giocatrice, professoressa e addetto stampa ante litteram Losanna Strigaro si occupò di comunicarlo alle compagne. Niente più calcio, per un pregiudizio. L’Ora dello Sportman del 6 aprile 1933 recita: Buon Dio, le donne hanno tante maniere, tante arti per battere gli uomini, che abbiano proprio bisogno di batterlo davanti a una porta e in un campo di football?
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