Martino a diciannove anni era tutto un fuoco. Cresciuto in campagna, si era trovato una bella picciotta con cui aveva appena cominciato a sperimentare lo scambio di fluidi corporei. E proprio quando il bello stava arrivando, lui che era pronto a saltare sulla vita come fosse una motocicletta, cadde giù e nel 1989 dovette partire per Lecce dove ad attenderlo ci fu una caserma militare per il servizio di leva.
LECCE
In mezzo a pugliesi e calabresi che volevano comandare, Martino pensava all’ingiustizia che stava subendo. Gli scarponi, la giacca a vento, il cinturone e le alzatacce. Lavorava con i carri e gli faceva schifo, dormiva nelle brandine e gli faceva schifo. I primi tempi furono terribili, quelli successivi peggio. Prese subito una licenza dicendo che aveva parenti in città, non era vero. Gli vennero concesse solo quarantotto ore. Sarebbero bastate solo per il viaggio d’andata, ma lui partì lo stesso e due giorni dopo raggiunse casa e disse alla famiglia che gli avevano dato tre giorni. Che sei venuto a fare, gli dicevano. E subito al terzo giorno ricevette il richiamo per mancato rientro. Tornò a Lecce e di gran carriera anche. Era nervoso, la disciplina lo irritava, il codice di comportamento gli era incomprensibile: una canzone dell’estate, di quelle che odi, che ti viene ripetuta ancora e ancora. Il pulcino pio nell’orecchio. Fino ad esplodere.
LA CIOTOLA DEL CANE
In fila per la sbobba, una ciotola di metallo in mano. Della ruggine. “’stu coso arrugginiu, ‘n ci vivu ccà!” e il militare dall’altro del bancone che si mette a ridere e che gli cambia la ciotola del cane con un’altra più arrugginita: “A che m’ava a serbiri? Per fare bere a te?”. La tensione, poi le risate generali. Una provocazione, una scaglia nell’unghia e Martino che spacca il setto nasale del militare a colpi di scodella. E poi altre botte. Se non l’avessero fermato, l’avrebbe ucciso. Invece gli dissero di prendersi un avvocato che avrebbe avuto una sorta di processino militare: “Picciuli pi l’avvocato nn’haiu”. Non aveva capito, bastava un superiore.
‘A BANNERA
Entrato in aula fece il saluto al militare di grado più alto, ma dimenticò di farlo alla bandiera. Fu rimproverato e rispose perché alla lingua non aveva messo mai il guinzaglio: “Ma picchi, s’iddu a saluta, ‘a bannera arrispunni?”. E venne gettato fuori. Non c’era nulla da fare, Martino venne spedito a tipo pacco postale a Udine, dove faceva freddo e dove gli venne proibito l’utilizzo delle armi.
UDINE E LA CINTURA DI METALLO
Fu messo per giorni e giorni a fare il piantone. Una sera, dopo aver calcolato il percorso e gli orari della guardia che controllava lui che controllava il perimetro, si tolse la giacca a vento e la lasciò come a creare un fantoccio. Andò allo spaccio per comprare dell’acqua e al suo ritorno il controllore del controllore lo richiamò. Martino provò a convincerlo: “Amunì, fai finta che non mi hai visto, che ti costa?” e quello disse che era lì proprio per controllare che non lasciasse la posizione. Col piffero che avrebbe fatto finta di nulla. Martino era di nuovo spalle al muro, senza giacca e con solo la cintura con gli anelli in metallo. Se la sfilò e attaccò il militare colpendolo una, due, più volte.
PORDENONE E I CAVALLI
Fu punito, fu trasferito a Pordenone in un posto infimo. Chi lo accolse gli disse che di lui sapeva tutto e che voleva aiutarlo, intanto i mesi passavano, le licenze erano finite e la zita era lontana. Da carrista (o aspirante tale) lo misero a occuparsi dei cavalli del maresciallo. Inizialmente doveva solo spalare gli escrementi nelle scuderie, poi piano piano iniziò a occuparsi dell’addestramento anche se non era previsto. A Martino i cavalli piacevano, li sellava e poi saltava gli ostacoli. Ne curava la muscolatura e il maresciallo se ne accorse, così inizio a portarlo con sé nelle uscite ufficiali a Livorno, ancora a Udine.
‘A ZABBARA
Il maresciallo gli avrebbe fatto fare carriera, pensava Martino. Ma la zita era in Sicilia, al solo ricordo tornava la disperazione. Ancora un anno sarebbe dovuto passare. E come dicevamo, Martino era tutto un fuoco. Provò a rompersi il dito, ma non ci riuscì (e meno male, toccare le minne non sarebbe stato più lo stesso). Allora si cosparse il braccio destro di zàbbara, si procurò qualcosa di contagioso e fu messo in isolamento: “Dimmi che ti sei messo sul braccio e ti facciamo stare con gli altri”; “No, non mi sono messo niente”. E allora isolamento.
NEANCHE UN PUNTO
Martino era in guerra con il sistema. Neanche i cavalli lo rendevano felice. Provò a rompersi il piede gettandogli di sopra un masso, ma niente. Allora prese la lametta e creò un solco proprio sotto la pianta del piede. Poi lo infilò nello scarpone e cominciò a camminare. “Perdo ra coppa ri l’ogghiu”, disse a un superiore. Per lui fu infermeria e neanche un punto, per sfregio.
LA VITA, LA PACE
“E quindi come finì?”, chiedo a Martino mentre aspettiamo l’autobus alla fine di viale delle Scienze, che è tardi e forse è meglio che me la faccio a piedi. “’Nca comu finiu, mi chiamaru ‘nghiornu e mi rissiru ‘ca a zita era ‘ncinta!”. E fu congedo. Quando la vita salva la vita.
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