Noi siciliani amiamo farci del male. Per decenni abbiamo lottato contro certi stereotipi che ci volevano tutti della stessa pasta: “Siciliano? Mafioso?” Quante volte ve lo siete sentiti dire andando fuori dalla Sicilia? E ogni volta bisognava spiegare che non siamo tutti così, che a Palermo non si gira con la lupara e che non c’è una “ammazzatina” ad ogni angolo di strada.

LA STORIA NON VA DIMENTICATA

Le stragi del ’92 hanno segnato la cresta di un’onda, l’apice del terrore, per noi e per gli spettatori esterni. Poi le souvenircoscienze, le reazioni di giovani e adulti, il passo indietro della stessa mafia che ha cambiato i suoi connotati mettendo da parte i metodi stragisti, privilegiando le stanze del potere e i colletti bianchi, hanno fatto sì che il fenomeno di cosa nostra allentasse quella morsa che teneva un intero popolo sotto sequestro.

MAFIA EXPORT

Mi sono imbattuto in un negozio di souvenir fra le strade del Cassaro. Entrando, in bella mostra, c’è un quadro in cui sono raffigurati Falcone e Borsellino. Una bella opera in bianco e nero fatta a carboncino. Un chiaro-scuro di circa un souvenirmetro di larghezza che contrasta, e per questo risalta, coi colori gioiosi dei souvenir della Sicilia. Abbassando gli occhi, però, in uno scaffale metallico, fra pupi siciliani, soli, limoni e fichi d’india, c’era la mafia. Statuette di ogni tipo: u mafiusu, a mafiusa, u mafiusieddu, the goodfather, il padrino sono io, baciamo le mani. “Minchia, in Sicilia sugnu”, c’è scritto su una calamita. E su un piattino in ceramica, c’è la cartina della Sicilia in bassorilievo, con i templi, i duomi, i limoni, l’etna, il marranzano, i fichi d’india, favignana, lampedusa e il mafioso, con gentil consorte, con la lupara in mano, posto su un piedistallo su cui spicca, come un colpo al cuore, la scritta Sicilia. L’immagine di Marlon Brando nelle vesti del padrino è ovunque: sulle tazze nere col manico a forma di pistola, sugli accendini, sulle magliette, sui magneti da frigo, sui piattini, sui posacenere…

“PERCHÉ SI MERAVIGLIA?”

Camminando per il centro storico ho visitato ogni singolo negozio di souvenir, nella speranza, vana, di trovare un cartello con su scritto “qui no souvenir di mafia“, per sottolineare una presa di posizione nei confronti di oggetti che non solo non andrebbero venduti ma che non dovrebbero nemmeno essere pensati: “In Germania vendono le tazze con la faccia di Hitler – mi ha detto un commerciante – perché si meraviglia?. Li comprano, per questo li teniamo. Ci dovremmo indignare, allora, anche per i film di mafia che trasmettono al cinema e in tv”.

HARAKIRI

In realtà ci indigniamo pure per quelli. Soprattutto quando si ritrovano all’interno certi vecchi stereotipi e una cadenza dialettale in cui molto spesso non ci riconosciamo. Regie che spesso vengono da lontano. Qui, invece, ci facciamo male da soli. Abbiamo tante cose da esportare: le nostre ceramiche, i nostri pupi siciliani, i nostri monumenti, la nostra arte, i nostri colori, il nostro mare, i nostri cibi, i nostri agrumi, i nostri eroi. Tutto ciò che è nostro, ma non cosa nostra.Per quella dovremmo provare vergogna e dolore, sdegno e un senso di ripudio. Ciò che dovremmo mantenere viva è solo la memoria. Di chi è morto e di chi ha lottato. Ed elogiare, aiutare e sponsorizzare chi lotta tutt’ora per sconfiggerla.

IMMAGINE TRISTE

Provate infine ad immaginare il frigorifero pieno di magneti di un turista habitué: su quello sportello faranno bella mostra di sé la Statua della Libertà, la Torre Eiffel, Buckingham Palace, il Colosseo, il Duomo di Milano e, in un angolo, u’ mafiusieddu ca’ cuoppola e a’ lupara. Una minchiata col botto.

PLAYLIST: Minchia Signor Tenente – Giorgio Faletti