Katya Maugeri, Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento. Villaggio Maori Edizioni, Catania 2019.

 

Questo è un libro importante. Non solo perché oggi un ministro (degli Interni!) parla delle carceri come un luogo in cui far marcire o minaccia (appena ieri) per i detenuti lavori forzati che non esistono, stravolgendo i nostri principi costituzionali, ma perché, quasi sulle orme di Radio Carcere, fa uscire da dietro le sbarre le voci ‘autentiche’ dei detenuti.

LE PAROLE DEI CARCERATI

Si potrebbero contare le loro parole virgolettate per verificare come gran parte del libro è costruito dalle parole dei carcerati. Una costruzione però che è merito dell’autrice disporre lungo un percorso ‘letterario’, cioè lungo un filo narrativo che consente al racconto semplice anche se drammatico del detenuto, di farsi ‘testimonianza’ ed  esempio. Scardinati i luoghi comuni narrativi e giornalistici, così quasi ad avvertire il lettore,  ad esordio Katya Maugeri definisce la sua ‘metodologia’: “ricordi i film, i libri letti e continui a ripeterti che l’immagine artefatta crea aspettative ben diverse dalla realtà.

SENZA FILTRI

La realtà carceraria, quella che solo loro possono raccontare, senza filtri né giri di parole, e tu puoi solo ascoltarla, accoglierla, con empatia. Abbandonando ogni pregiudizio” (p. 13). L’autrice partecipa ed ‘assiste’ le ‘confessioni’ col suo rassicurante sorriso, incastonandole  tra le sue riflessioni che si snodano come un rosario tra una intervista e l’altra e disegnano un discorso complesso, una visione nuova e al contempo ben radicata nella tradizione che appartiene a Marco Pannella e ai radicali (senza voler dare etichette all’autrice, ma riconoscendo il merito culturale del grande Marco sul fronte carcerario).

L’INTERVISTA A RADIO RADICALE

Al riguardo, ricordo bene l’intervista realizzata da Radio Radicale alla giornalista, lo scorso marzo. Il suo rapporto con il mondo delle carceri passa per la benefica attività dell’associazione “Antigone Sicilia”, di cui spesso su Radio Radicale si citano i rapporti e le iniziative.

LA CONFESSIONE DEL DETENUTO

I detenuti non sono intervistati. Non ci sono domande, se ci sono state non sono riportate, e il testo si snoda invece lungo la ‘confessione’ del detenuto, non uno sfogo, anche se a volte traspare questo registro, ma prevale il tentativo di dare un senso alla propria esperienza e  alla propria vita che appare in genere pervasa da un’ansia di riscatto. Si susseguono così sette racconti, i cui titoli ( ne citiamo alcuni: l’uomo dal cappello di paglia, l’uomo dal volto scoperto, l’uomo dal profumo di zenzero, l’uomo ombra) figurerebbero bene nei romanzi di Simenon, ma la somiglianza finisce là.

RECUPERARE LA NORMALITA’

Il racconto qui penetra dove il letterato si arresta. Non è il momento in cui si varca il limite che la fa da protagonista, ma il tentativo difficile, quasi disperato eppure tenacemente rivendicato, di rivarcare quella soglia e recuperare la ‘normalità’ della vita attraverso gli affetti: mogli e figli popolano i racconti, come rimorso, come nostalgia, come speranza. Il sottotitolo del libro del resto recita: “dal reato al cambiamento”.

LA VOGLIA DI RISCATTO

Lo schema dei racconti sembra ripetersi: le difficoltà (in genere economiche) portano ad attraversare la linea spessa ma quasi invisibile che separa la ‘normalità’ dalla ‘devianza’. Ma non è qui appunto la forza dei testi e il loro vero interesse. La parte più interessante è (lo ripetiamo, perché questa è la sostanza del libro)  la voglia di riscatto che in carcere, spesso a dispetto del carcere,  è  maturata. Una voglia destinata a scontrarsi, se non a infrangersi, con una realtà incapace di accoglierla, di farsene carico in modo positivo.

IL RIMPROVERO

Ecco allora le riflessioni dell’autrice diventare un rimprovero all’incapacità del mondo ‘normale’ di approntare gli strumenti adeguati per riaccogliere, dopo averla punita, questa umanità dolente che ha recuperato moralmente un senso della dignità  (la parola ricorre spesso) che la rende affamata di ‘rinascita’. Dalle “attività che prevede l’art. 21, ritorno con stimoli  e obiettivi: l’impegno con il teatro mi gratifica moltissimo, inoltre ho frequentato il secondo e il terzo anno di scuola superiore e un corso di formazione base per lavoratori. Sono un uomo cambiato” (p. 43). Così racconta “l’uomo dal volto scoperto” che appare però molto pessimista sulle possibilità di reinserimento, adesso che “ho quasi finito la mia detenzione” (p. 42).

LIBRO LUCIDO E CATTIVO

Gran libro, ben scritto, senza cedere mai alla tentazione del registro “strappalacrime”, sempre lucido e ‘cattivo’ come una lama di coltello anche con gli ‘alibi’ dei detenuti, nel riportare il  loro racconto, nell’utilizzarlo per accusare noi ‘normali’, una volta incarcerati i devianti, perché veniamo meno ai principi della nostra costituzione. Il raffronto con l’oggi è per forza di cose terrificante. Il libro oltre che controcorrente appare inattuale di fronte ad un’opinione pubblica aizzata nei suoi istinti più bassi e vendicativi.

GIUSTIZIA, NON VENDETTA

La giustizia non è vendetta in un paese civile, la punizione contiene in sé la promessa di un riscatto che i detenuti sembrano aver colto. Terribile deluderli. Questo mi sembra il senso del  j’accuse di questo libro coraggioso che affronta con lucidità le contraddizioni di una pena ‘vendicativa’ rispetto al dettato rieducativo della nostra costituzione che “si ferma all’ingresso del carcere, perché la persona che finisce lì dentro perde ogni diritto ancor prima di avere una condanna definitiva” (p. 61).

LA COSTITUZIONE TRADITA

E’ la nostra costituzione è  tradita nella cella di isolamento, nella  “cella liscia”, così chiamata “perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio … E’ una cella buia, stretta e ha un odore nauseante … è di tortura che si tratta (p. 59). … Non esistono sanitari nella cella liscia. Il detenuto deve fare i propri bisogni sul pavimento, dove è costretto a dormire. L’aria infetta attira gli scarafaggi, che escono dagli anfratti del muro e brulicano per la stanza, infestano il cibo e camminano sopra il corpo del detenuto” (p. 60). Questa descrizione, che stride con la voglia di riscatto delle vite dei carcerati, si fa immediatamente grido lancinante e gravissima accusa che rovescia in drammatica e urgente attualità l’inattualità di questo  denso libro.

*Enrico Iachello (già preside facoltà di lettere università di Catania)

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