“Olimpic Sport era il luogo in cui, finiti gli allenamenti e prima di tornare a casa, chiudevamo la saracinesca della nostra giornata. Vittorio era come un padre a cui era naturale fare visita. E portare rispetto”. (Luigi Zarcone, intervista sulla Targa Olimpica, Palermo 1981)
I LAMPI DI GENIO
Cosa siano stati gli anni ’70 in Italia lo mettiamo a fuoco solo adesso, c’è voluto il tempo necessario perché la cronaca cominciasse ad assumere le sembianze di storia. La Sicilia, allora, era ancora più periferia dell’impero, intrisa di tradizione che tardava a lasciare spazio al contemporaneo. In misura minore Catania, ma soprattutto Palermo, almeno nel commercio ebbe i suoi lampi di genio.
I NEGOZI CULT
Proprio in quegli anni nacquero negozi cult che ha segnato la storia della città. Ellepì e Bla Bla sono stati gli epigoni di questo fenomeno, indimenticabile anche Wizard con le sue stanze stracolme di bellissimo superfluo, proprio di fronte al luogo in cui uccisero Boris Giuliano. E assieme a loro Olimpic Sport, il salotto creato da Vittorio Di Simone in cui vendere era la parte marginale dell’impresa.
LE TRIBU’
Perché nello spazio della appena nata via De Gasperi, che si era mangiato il glorioso campo della Bacigalupo, si parlava di sport, altro che pensare agli affari. Del resto la vita di Vittorio è stata interamente dedicata allo sport, da praticante e da creatore di eventi. E Olimpic Sport fu la sua casa ideale, punto di ritrovo di appassionati e atleti, officina di idee, stanza di compensazione di tante diatribe. Perché una verità bisogna dirla: nello sport, più che in ogni altro contesto, Palermo era divisa in tribù.
CAREZZE E TIMPULATE
E per molto tempo Di Simone fu arbitro attento e imparziale, disponibile com’era a distribuire carezze e timpulate pur di tenere unite quelle passioni che in eccesso talvolta separavano anime gemelle. Tuppuliare alla sua porta era naturale, a Vittorio si riconosceva carisma e soprattutto l’assoluta assenza di interessi personali nelle odiose rivalità esasperate da gelosie e incarichi. Dentro e fuori le federazioni sportive.
LA TARGA OLIMPICA
Di Simone, in gioventù, fu calciatore di belle speranze. Ma il suo amore per l’atletica era forte tanto quanto, se non di più. E quando a metà degli anni ’70 decise di mettere alla prova le sue capacità organizzative, ecco che venne fuori la Targa Olimpica. Parliamo del primo esperimento a Palermo di corsa podistica su strada, madre di tutte le mezze maratone che poi seguirono, sulla scorta di quel successo francamente inimmaginabile.
BORDIN E PIZZOLATO
Con la sua voce roca e ficcante, trequarti di Buscaglione un pizzico di Califano e una spruzzata di zù totò, Di Simone fu capace di convincere fior di campioni a farsi una corsetta a Palermo. E non parliamo solo della meglio gioventù palermitana (peraltro dominante in tutto il continente), ma del meglio che c’era in giro. Tanto per dire, alla Targa Olimpica parteciparono i vincitori della maratona di New York, Gelindo Bordin (poi anche oro olimpico) e Orlando Pizzolato, oltre agli squadroni di Etiopia e Kenia che contendevano alla scuola italiana il dominio internazionale.
ZARCONE, IL FIGLIO PREDILETTO
L’uomo simbolo della Targa però era natio di Villabate e palermitano d’adozione. Si chiamava Luigi Zarcone, fisico asciutto, cadenza e ritmo africani, grande capacità di sofferenza, tutte cose essenziali per un grande mezzofondista. Ma i muscoli ogni tanto lo tradivano. Tatticamente era il più forte del mondo, purtroppo questa supremazia fu evidente tante volte in Italia, poche in Europa, quasi mai sui palcoscenici internazionali. Era il prediletto di Di Simone, più di Totò Antibo o di Piero e Antonio Selvaggio, altri figliastri eccellenti.
LA MORTE DELL’EROE
Zarcone era Achille, l’eroe a cui mancava la perfezione per essere dio, il più debole tra i forti, uno nella cui fronte si poteva leggere l’amarezza del destino. Morì a 51 anni, nel 2001, di cirrosi epatica, atroce beffa per chi inorridiva persino davanti all’acqua gassata.
QUALE VITA SENZA SPORT?
Della Targa Olimpica restano i ricordi delle migliaia di ragazzini che correvano la non competitiva, pescati da Di Simone scuola per scuola. Guardava questi ragazzini con ammirazione e ringraziava le loro famiglie al momento della partenza. Che vita sarebbe senza sport, diceva loro. Domanda non banale, anche se spesso riceveva in cambio sorrisi di circostanza.
IL CALIFORNIA DI LA MARCA
E restano le immagini del professore La Marca, inflessibile giudice di gara che precedeva la carovana in sella al suo Guzzi California. Capelli e barba al vento, era lo sguardo severo e itinerante di Vittorio. Oppure l’inconfondibile voce di Nello Bonvissuto che raccontava la corsa in presa diretta. E i baffi di Boris Bakmanz e lo sguardo stravolto dalla fatica di Marcello Gargano, che all’arrivo lo potevi strizzare.
IL TRAMONTO
Il tramonto della Targa Olimpica ha cause precise, gli ingaggi chiesti dai big hanno giocato una parte determinante in quel mondo troppo legato al romanticismo che era l’essenza della manifestazione. E poi l’assenza delle istituzioni. Nel nostro gioco dell’oca torniamo, quindi, alla partenza. Olimpic Sport, dicevamo. Non è un caso che le saracinesche del negozio e della Targa si abbassarono quasi in simultanea. Era venuto meno lo spirito che animava quell’angolo di strada.
IL GIACCONE RELIQUIA
Di Olimpic Sport conservo ancora una sacra reliquia, un giaccone Anzi-Besson che Di Simone mi forzò ad acquistare, cosa abbastanza rara. “Se non ti piace me lo ridai”. Anzi e Besson erano i parenti poveri di Gustavo Thoeni e Pierino Gros. Diventarono grandi con l’abbigliamento sportivo, portando nel casual la tecnologia sperimentata sulla neve. E quella giacca valeva oro negli anni ’70, per chi andava in moto sotto pioggia, vento e grandine. E per questo ti dico grazie, Vittorio.
GRAZIE, VITTORIO
Grazie per questo e per tutti i discorsi accennati, tra un decennio e un altro, parlando di sport e d’amore, di letteratura e del pettegolezzo più in voga, proprio come due comari. Grazie per le cene rubate alla famiglia di cui sono testimoni solo Alvaro Biagini e Pino Caramanno, durante le quali bicchieri e posate diventavano pedine su quel tavolo trasformato in un campo di calcio. Grazie per le parole non dette, perché a volte non c’è bisogno di chiudere una frase. Va lasciata così.
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