Il centenario della nascita di Vittorio Nisticò suscita in tanti di noi, che alla sua scuola si sono formati, ricordi carichi di riconoscimento: alla sua bottega abbiamo sperimentato un giornalismo moderno, certamente schierato. Qualcuno lo ha definito “spavaldo e raffinato”. Aggiungerei squattrinato e orgoglioso, in perenne contrapposizione con il potere dal quale era ricambiato spesso con timore, quasi sempre con disprezzo. Tante volte è stato rievocato il clima di quelle esperienze nelle quali si sono formate tre generazioni di giornalisti che poi hanno trasferito nel grande giro nazionale un modello memorabile di tecniche e di saperi professionali.
L’ATTRAZIONE DEL MESTIERE
Non mi fu difficile riconoscere il valore originale del giornalismo dell’Ora quando – passando per le strettoie di una selezione spietata – mi ritrovai in corsa con altri ragazzi precari per vocazione e invisibili per necessità. Tutti uniti dalla fascinosa attrazione del mestiere e presi, quasi intimiditi, dal respiro culturale della redazione. In quella bottega artigianale si confezionava ogni giorno, tra nuvole di fumo e titoli di una genialità monumentale, un giornalismo che mescolava generi solo all’apparenza diversi.
GLI STRILLONI
Al tono a volte “popolare” della cronaca, sul quale si modulava il grido di richiamo degli strilloni (A tutti i pigghiaru), faceva sempre da contraltare il taglio dell’informazione colta nel quale erano preminenti la lettura politica della storia della Sicilia e lo sforzo divulgativo che faceva diventare la cronaca storia e memoria.
L’AUTONOMIA
Malgrado l’editore di riferimento fosse un partito, l’autonomia della linea editoriale era un patrimonio civile e professionale che soprattutto Nisticò, come pure gli altri sette direttori che si sono avvicendati dopo di lui, ha garantito e difeso a volte con brutale ostinazione. Questo presidio di autonomia era fondato su quella che per lui era una “assoluta priorità del ruolo professionale e dei valori del giornalismo”.
DA SCIASCIA A CONSOLO
Quanto fosse lungimirante quel teorema è dimostrato dal fatto che il giornale faceva il grillo parlante con tutti e non subiva ma anzi dettava l’agenda alla politica. Tutto questo facilitò sin dai primi anni Sessanta il rapporto con la cultura e con la borghesia illuminata di Palermo (c’era, e contava tanto) che diede a L’Ora un’apertura di credito riconoscendo l’originalità, minoritaria nella stampa di allora, di una linea incentrata sul primato del giornalismo. Sciascia per primo ne era consapevole. E con lui la schiera di scrittori che faceva la spola con la stanza di Nisticò: da Leonardo Sciascia a Carlo Levi, da Michele Perriera a Vincenzo Consolo.
IL VALORE DELL’INCHIESTA
Nelle mani di Nisticò tutto poi diventava inchiesta. Attenzione a non confondere le tecniche di allora basate sulla ricerca originale e sul lavoro di squadra con quelle di oggi che sono spesso tributarie delle fonti e somigliano tanto a “inchieste sulle inchieste”.
IL DESTINO DELL’OPPOSIZIONE
A L’Ora si è investigato prima degli altri non solo sulla mafia ma anche sul costume, sui temi civili, sullo sport, sugli affari, sulla condizione femminile, sul sacco di Palermo, sulla Dc, sui rigurgiti del fascismo. Erano gli strumenti di un mestiere che si muoveva con il gusto della ricerca e il destino dell’opposizione (un concetto che Sciascia associava al ruolo dell’informazione). E per questo gli inviati della stampa nazionale venivano in quegli anni a L’Ora per sfogliare le collezioni dove tutto era stato già scritto.
L’ATTENTATO DI COSA NOSTRA
Dalle pagine del giornale affiorava il profilo di una Sicilia bella e dannata. La dannazione principale era (ed è) la mafia. Sin dall’inchiesta del 1958, che Cosa nostra ripagò con l’attentato alla tipografia, L’Ora scelse una chiave “politica” per capire ciò che stava cambiando in Sicilia e quanto i cambiamenti e gli immobilismi dipendessero dalle trasformazioni nel sistema di potere pervasivo della mafia. Il senso di questa scelta è stato spiegato dal giornale dopo l’attentato: “Noi abbiamo […] spogliato la mafia dell’alone romantico che la proteggeva e l’abbiamo mostrata con il suo vero volto, che è poi l’avidità di denaro e di potere”.
PAGATO A PREZZO DI SANGUE
Il giornale ha pagato a prezzo di sangue il suo “destino di opposizione” con tre cronisti assassinati: Cosimo Cristina corrispondente da Termini Imerese nel 1960, Mauro De Mauro nel 1970, Giovanni Spampinato nel 1972. Bombe e pressioni criminali si saldavano con l’assedio delle denunce, delle condanne e delle querele che il potere messo a nudo scagliava contro il giornale. Ma non fu per questa via che si decise il suo destino.
IL BARATRO
A spingerlo nel baratro fu una sciagurata gestione delle risorse unita alla cecità politica di chi non capiva che il suo ruolo non era finito. E anzi era atteso a una prova ancora più decisiva nella fase in cui cominciava la stagione delle stragi e prendeva forma una rivoluzione incalzante, per quanto confusa, del sistema politico che L’Ora non poté mai raccontare. La redazione era pronta a raccontare la nuova stagione. E per questo titolammo l’ultima prima pagina con un illusorio “Arrivederci”. Quella sera in cui a piazzetta Napoli si spensero le luci nessuno era disposto a credere che quello era invece un addio.
Playlist: Goodbye yellow brick road – Elton John
Be the first to write a comment.