Dici calzone e a Palermo automaticamente il teletrasporto ti conduce in zona Fiera, in quella parte di città che non è più monte ma ancora neanche mare. Nella terra di mezzo in cui la matrice popolare della vicina via Montalbo si fonde con quella indefinibile edilizia venuta su tra la fine degli anni ’60 e l’alba dei ’70.

STOMACO E PALATO

La casa del calzone, preferibilmente fritto, è il bar Scatassa, il ritrovo di via Ammiraglio Rizzo per gente dallo stomaco forte e dal palato raffinato. E le due cose non sempre coincidono, la resistenza alla frittura con la ricerca di una qualità che non è scontato sia l’elemento primario di selezione parlando di rosticceria.

L’ODORE DEL FRITTO

Parte la prima confessione: io da Scatassa, per qualche anno ho fatto colazione con i tecnici di Teleregione a colpi di arancine al burro. Colazione, sissignori, alle 8 del mattino, che poi entravi in studio e ti avvolgeva l’invidia degli esclusi che riconoscevano a naso l’odore del fritto. Un rito che davvero rappresentava il buongiorno.

IL MUST

Adesso salta fuori la storia del calzone, un altro must che si accoppia alle pizzette di Graziano e del bar Lucy o al panino con la milza di Porta Carbone. Percorsi obbligati per chi rende onore al cibo da strada e alla sua tradizione. Inutile dire che, anche sul calzone, ci sono guerre di religione. Ma quello di Scatassa mette tutti d’accordo.

LABORATORIO DEL MOULIN ROUGE

Dietro al suo calzone c’è una storia di oltre mezzo secolo. Fu Giovambattista a scommettere sulle proprie abilità, rodate da anni nella veste di capo pasticciere di Caflish. Siamo nel pieno degli anni ’60 e a Palermo comincia l’espansione edilizia che coinvolge anche la zona Fiera. Scatassa sceglie proprio l’angolo con la futura Thaon De Revel – dove poi sarebbe arrivata la Sigma di Libero Grassi – per impiantare il suo bar. Anzi, all’inizio era solo il laboratorio che serviva uno dei bar più in di Palermo, il Moulin Rouge, accanto al cinema Fiamma.

SI ALZA LA SARACINESCA: E’ IL 1967

Ma Giovambattista intuisce subito che c’è spazio per qualcosa di più di un laboratorio. E nel 1967 alza la saracinesca del bar Scatassa. Per oltre 4 decenni resta al timone della sua creatura, poi agevola la successione e arriva il figlio Gianfranco, l’erede che oggi dirige l’azienda di famiglia con lo stesso piglio del padre. E con lui, con una simbolica quota, tanto per accentuare il carattere familiare dell’impresa, anche l’altra figlia Maria Luisa. La parola d’ordine è sempre la stessa: la qualità della materia prima.

UN MITO CHE DURA DA 50 ANNI

E proprio con Gianfranco tentiamo di capire il segreto del suo calzone. “Sa qual è la cosa strana – esordisce -? Parliamo del pezzo meno complicato da realizzare, sempre che gli ingredienti siano di prima scelta“. Eppure se il mito dura da 50 anni ci deve essere qualcosa che lo rende diverso dai “colleghi” delle altre rosticcerie…

IL SEGRETO NELLO STRUTTO

“Partiamo dal fatto che è sempre lo stesso da anni. Sapete perché? Chi lavora con noi va via solo per la pensione. E quindi c’è un trasferimento di sapere che si perpetua negli anni. E questo incide. Forse però il segreto sta nel fatto che la nostra frittura è molto delicata perché noi per friggere usiamo lo strutto. Nè olio di semi, nè altre cose del genere che rischiano di essere molto invasive. E questo assicura che il calzone sia croccante al punto giusto, senza risultare pesante, che è il primo rischio quando si parla di frittura”.

LA FESTA SOCIAL

Anche nell’era dei social, Scatassa mantiene il suo fascino. Un paio di settimane fa il gruppo facebook degli ex studenti del Garibaldi ha tenuto in via Ammiraglio Rizzo la prima festa del calzone. Con tanto di post e foto a documentare l’impresa. “Ma non si sono limitati al calzone, hanno fatto festa anche alle arancine…”.

ORGOGLIO E APPARTENENZA

Ciò che è visibile, in tutti quelli che lavorano da Scatassa è l’orgoglio dell’appartenenza, dai banconisti agli addetti alle cucine si capisce che i movimenti sono sincronizzati. E che c’è una squadra all’opera. “Pochi giorni fa è venuto a trovarmi un uomo che non ricordavo di conoscere. Mi ha detto di essere stato assunto nel ’67 e che mi veniva a prendere all’uscita di scuola”.

LA TESTA DELL’AZIENDA

Questo per sottolineare che quando si dice è come uno di famiglia non è un modo di dire. Certo, poi sarà lo strutto, l’equipaggio che non cambia mai, la qualità della materia prima, ma se posso dire la mia il segreto è nella testa dell’azienda. Come sempre. Anche in un bar. E anche parlando di calzoni.

Playlist: Aladdin sane – David Bowie