Tornavo a casa con Audrey, reduce dall’ultima pipì della giornata, ed ero già davanti al portone, quando improvvisamente lo vidi. Si era materializzato quasi dal nulla a due metri da me. Era appoggiato con una mano alla vetrina della Conad, il capo chino, stanco e stremato. Alto ma un po’ ingobbito, una felpa dall’aria vissuta, scarpe sportive e un berrettaccio di lana in testa, lo sguardo ancora fiero ma nel contempo smarrito.
AUDREY ABBAIA
Audrey aveva cominciato ad abbaiargli contro (lo fa sempre perché è un cane gioioso, ama le persone, con le quali vuole interloquire e questo è il suo modo per reclamare il contatto). “Ha bisogno di aiuto?” – gli chiesi. Mi rispose senza indugio: “Si… Devo tornare là dov’ero ma non so… Può ospitarmi stasera? Gliene verrà soltanto bene…”.
ERA UN PROFESSORE D’INGLESE
Capii che dovevo fare qualcosa. Citofonai allora a mia figlia dicendogli che stavo mandandole su Audrey con l’ascensore e restai con lui. Provai a capire. Qualcosa ricordava: si chiamava Enzo R. , era un professore d’inglese, viveva in una grande villa a Casteldaccia, ma non ricordava come e perché era arrivato in Via Ammiraglio Rizzo.
CHIAMO LA POLIZIA
Era in evidente difficoltà, non potevo lasciarlo per strada. Decisi di chiamare il 113 spiegando il caso. Mi chiesero di rimanere lì con lui in attesa della Volante. Gli agenti arrivarono dopo una quindicina di minuti. Cominciarono anche loro ad interrogarlo chiedendogli nel frattempo se avesse nella tracolla qualcosa tipo un telefonino o un documento.
IN FUGA DALL’OSPEDALE
Niente telefonino né documenti. Si accorsero però (con l’occhio esperto e allenato che a me manca) di due particolari decisivi: aveva al polso destro un braccialetto in plastica con le sue generalità e al polso sinistro addirittura un catetere ancora attaccato: fu chiaro allora che Enzo R., classe 1940, senza parenti e per questo affidato ad un assistente sociale, era scappato da un ospedale o da una casa protetta.
L’INVITO A CENA
La Centrale confermò. Non una volta ma due volte Enzo era riuscito ad evadere da un ospedale: la prima volta dal Buccheri La Ferla, la seconda da Villa Sofia. Erano già le 21,30. “Può invitarmi a cena? Io mangio pochissimo” – mi chiese guardandomi con quei suoi occhi acquosi e febbricitanti. Gli risposi che era già tutto organizzato, che avrebbe mangiato e poi dormito al caldo e al riparo. Mi parve rassicurato.
BUONA SERA, PROFESSORE
Gli agenti chiamarono a qual punto il 118 che arrivò una mezz’oretta dopo. Gli operatori lo salutarono divertiti: “Buona sera professore!” Lui parve sorpreso: “Ci conosciamo?”. Lo conoscevano, perché era già la terza volta che lo recuperavano e lo portavano in ospedale… Gli agenti seguirono l’ambulanza. Ci salutammo e ringraziammo a vicenda.
QUANTI UOMINI RANDAGI
Salii a casa, dove Simona e Audrey mi aspettavano. Ero sollevato ma anche un po’ turbato: cosa sarebbe successo se quell’uomo in fuga da Villa Sofia avesse deciso di attraversare la Favorita? Se si fosse sentito male chi si sarebbe accorto di lui? Chi si sarebbe fermato notando un vecchio malmesso in un viale della Favorita? Quanti uomini che la vita e il destino hanno reso sperduti e randagi ci sono?
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