Quella del ritrovamento della nave di Scauri, a Pantelleria, è una storia che inizia più di vent’anni fa. Un pescatore subacqueo pantesco, attratto dalla notizia della presenza di grossi saraghi nella baia di Scauri, effettuò nel 1997 un’immersione nelle acque del porto, riparato dalle forti raffiche di Grecale che in quelle giornate sferzano l’isola.

IL RITROVAMENTO FORTUITO

Durante la sua battuta di caccia, è incuriosito da alcune pentole in ceramica impilate che sbucano dal fondale sabbioso, e da alcune tessere di mosaico bianche e nere semi sommerse. Al termine dell’immersione, indaga con discrezione presso i pescatori locali a proposito di ritrovamenti e relitti scoperti in quella zona, ma l’unica notizia che ottiene è di grossi spostamenti di materiali durante la costruzione del nuovo molo del porto. E della presenza all’interno del materiale di risulta di tessere di mosaico e pance d’anfora. La sua immediata segnalazione a Sebastiano Tusa, allora dirigente della Soprintendenza ai Beni Culturali di Trapani, attiva le prime indagini subacquee sul sito, con la collaborazione dei sommozzatori della Guardia di Finanza. 

 

LE PRIME INDAGINI

Già dalle prime immersioni si capì che una nave era naufragata proprio all’imboccatura del porto, nelle immediate vicinanze di un piccolo villaggio antico del IV – V secolo d.C., da poco scoperto a pochi metri dal sito subacqueo. La storia dello scavo e del recupero dei materiali è piuttosto lunga. L’annosa mancanza di risorse economiche e la mancanza di una struttura dedicata all’archeologia subacquea, fecero si che lo scavo durasse fino al 2008. Ma nel frattempo vedeva la luce in Sicilia il GIASS – Gruppo di Indagine Archeologica Subacquea Sicilia e successivamente lo SCRAS – Servizio per il Coordinamento delle Ricerche Archeologiche Sottomarine, due realtà che posero le basi per la Soprintendenza del Mare che concluse i lavori a Scauri nel 2008.

IL GRUPPO DI TUSA

Le prime campagne di scavo realizzate nella piccola baia, a circa otto metri di profondità, furono caratterizzate da un grande entusiasmo da parte di tutti noi che, da poco costituiti in un gruppo sotto la guida di Sebastiano Tusa, iniziavamo una meravigliosa avventura in quel mondo poco conosciuto e ancora tutto da sperimentare. Iniziammo lo scavo con le poche attrezzature di cui disponevamo e con il prezioso aiuto dell’Università di Bologna e di un gruppo di giovani archeologi specializzandi, che tanto avrebbero dato all’archeologia siciliana in futuro. Il mese di settembre di ogni anno era dedicato interamente alla campagna di scavi subacquei a Pantelleria. Secondo dei turni programmati, ci avvicendavamo sullo scavo assieme agli archeologi bolognesi, in un lungo percorso che portò alla realizzazione di un progetto scientifico completo. Uno dei pochi portato totalmente a compimento in questo settore che spesso interrompe i propri lavori per le tante difficoltà sia organizzative che economiche. 

 

LE CAMPAGNE DI SCAVO SUBACQUEO

Fu, quella di Pantelleria, una delle prime occasioni per applicare in Sicilia la metodologia di scavo subacqueo che ormai era diventata la regola nel mondo scientifico. Una tecnica mutuata dall’archeologia terrestre in un’ottica di multidisciplinarietà che contraddistinse tutta l’esperienza professionale dell’archeologo Tusa. Dopo avere delimitato la zona da indagare e averla divisa in quadrati, iniziammo l’indagine stratigrafica dei singoli quadrati mediante l’uso della sorbona. Si tratta di una pompa che, aspirando il sedimento dal fondo, permette di “mettere in luce” i reperti coperti dalla sabbia. Un lavoro duro e meticoloso, con lunghi turni in immersione. Il materiale aspirato, veniva riversato nel cosiddetto vaglio, un contenitore dove vengono scaricati i materiali aspirati per un ulteriore controllo. Dopo averli portati in superficie, i reperti furono sottoposti ad un primo trattamento di desalinizzazione in acqua dolce e alla loro classificazione. Dopo avere disegnato e fotografato tutti i reperti e i frammenti, vennero immessi in un database che costituitì lo strumento di studio per le tipologie di materiali recuperati. Un lavoro lungo cui seguì il restauro dei reperti e la prima musealizzazione.

 

IL CARICO DELLA NAVE

“Pantellerian ware”, così viene definita e internazionalmente riconosciuta la ceramica che costituiva il carico della piccola imbarcazione mercantile che trasportava, tra l’Africa e Pantelleria, un carico di vasellame da fuoco prodotto nel limitrofo villaggio del porto. Pentole, teglie, piatti, scodelle, coperchi, tutta ceramica da fuoco realizzata a Pantelleria ed esportata nel Mediterraneo. Una ceramica molto apprezzata per le sue caratteristiche di resistenza al fuoco e alle cotture, che ebbe una grande diffusione in tutto il Mediterraneo Centrale e Occidentale in età romana, soprattutto grazie alle sue proprietà termoresistenti date dalla presenza nell’impasto di minerali vulcanici che così permettevano una particolare resistenza alle alte temperature.

LA PANTELLERIAN WARE

La diffusione della “Pantellerian ware” nel Mediterraneo, è un fatto straordinario soprattutto se messa in rapporto al suo piccolo centro di produzione e distribuzione situato a Scauri; dopo più di un decennio di ricerche archeologiche mirate infatti, la baia con il porto e il suo entroterra risulta essere l’unico centro di produzione e vendita del vasellame nell’isola nel periodo tra il IV e V secolo d.C. 

OLTRE 16.000 FRAMMENTI

Dopo sette lunghe campagne di scavo subacqueo, la catalogazione di oltre 16.000 frammenti diagnostici ci ha permesso di ottenere una banca dati. All’interno di essa si sono distinte le forme e le tipologie della ceramica da fuoco, ottenendo un catalogo completo. Oltre ai manufatti in ceramica, che rappresentano il 95 percento del carico,  gli altri tipi di materiali rinvenuti sono costituiti da frammenti di vetro di bicchieri, coppe, vasi, piccoli oggetti ornamentali (perline, vaghi di collana), pedine da gioco e tesserine di mosaico in pasta vitrea, principalmente color blu cobalto.

LA MONETA DI COSTANTINO I

Inoltre sono state individuate parti di oggetti in bronzo e ferro, ma anche frammenti di piombo, anellini e monete. Delle quattordici monete recuperate durante gli scavi, tredici sono in pessimo stato di conservazione tale da renderne impossibile la decifrazione. L’unico esemplare in ottimo stato di conservazione reca la testa dell’imperatore romano Costantino I. Molti denti animali ma anche piccoli oggetti di uso quotidiano come dadi da gioco, spatoline, spilloni per capelli e aghi in osso. E ancora moltissime tesserine di mosaico di varie dimensioni e frammenti di lastrine di granito utilizzate come decorazioni pavimentali o parietali.

L’ANELLO DI DIANA

I due ami in bronzo e l’ago rinvenuti durante lo scavo, testimoniano ciò che le fonti storiche narrano. Sappiamo, infatti, che le scorte alimentari a bordo delle navi erano spesso integrate da pesce fresco che si pescava dall’imbarcazione in movimento con il sistema a traino. La pesca era praticata inoltre con reti, e sulla nave di Scauri probabilmente ciò avveniva poichè sono stati rinvenuti anche pesi litici da rete. Al rammendo di queste reti e alla ricucitura delle vele, doveva servire probabilmente l’ago a sezione quadrangolare con due buchi nella cruna, ritrovato nell’area di scavo del relitto. Altri reperti importanti, sicuramente i più belli, sono un anellino con castone in corniola raffigurante un’ancora, e di grande pregio artistico una piccola corniola di forma ovale e bordo rientrante per consentire l’incastonatura in un anello con un’incisione che raffigura Diana che regge un arco e un quadrupede coronato di alloro.

IL SISTEMA DI STIVAGGIO

Una delle particolarità più interessanti emerse dallo scavo, eseguito con il metodo per livelli di materiale (cioè secondo una stratigrafia), ha permesso di individuare l’ordine in cui veniva impilato il vasellame all’interno del carico, che si è rivelato essere quello più utile per utilizzare il minor spazio possibile e per evitare rotture. Il metodo utilizzato per ordinare il vasellame all’interno della stiva era quello di disporre sotto la teglia con diametro maggiore, all’interno della quale vi era una teglia più piccola e, sopra di queste, un coperchio posto ribaltato all’interno. Una economia degli spazi già nota ai romani e che fu antesignana dei moderni concetti di packaging.

L’IMBARCAZIONE INCENDIATA

Quella naufragata, era un’imbarcazione che non superava i 20 metri di lunghezza, di origine nord-africana, gestita da commercianti/armatori cristiani, peraltro molto attivi nel commercio marittimo proprio nei decenni finali dell’impero. Dello scafo purtroppo non è rimasto molto. Sono stati recuperati 48 elementi lignei che hanno consentito di studiare la tecnica di costruzione e le essenze usate. E’ certo però che l’imbarcazione prima di affondare si incendiò come dimostrano le tracce di materiale bruciato rinvenuto su tutti i reperti e sul legno recuperato.

 

La nave di Scauri e il suo carico, dopo la sua individuazione, è stata scavata, studiata, recuperata, restaurata, musealizzata e pubblicata. Un ricco volume, edito dalla Regione Siciliana, riassume in quasi 500 pagine la storia del relitto del V secolo d.C., dei suoi materiali, delle tecniche di costruzione e navigazione, delle ipotesi dell’affondamento, dei commerci in quel periodo storico, e approfondisce le tecniche e metologie di scavo subacqueo utilizzate. Un lavoro scientifico di alto livello che grazie alla direzione di Sebastiano Tusa ha fatto luce su un carico di ceramica unico nel contesto del Mediterraneo. 

L’ESPOSIZIONE DEL RELITTO

La musealizzazione definitiva, dopo tante esposizioni realizzate sia sull’isola che in mostre internazionali, sarà inaugurata prossimamente al Museo archeologico dell’Arenella di Pantelleria dove, oltre che la ricostruzione dello scafo, sarà visibile l’intero carico recuperato.  Una vicenda, questa del relitto di Scauri, che parte da lontano e che ci ha permesso di ricostruire un interessante pezzo di storia antica di Pantelleria e del mondo romano. Un’altra grande eredità lasciata da Sebastiano Tusa che con grande perseveranza ha fatto in modo di applicare allo scavo di Scauri quella interdisciplinarietà che ormai è diventata la regola nell’archeologia subacquea moderna. Una entusiasmante operazione corale che ha fatto luce su un capitolo del nostro passato rimasto sepolto sott’acqua per più di 1500 anni.

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