Alessandro, 42 anni, laureato, lavoratore del call center Almaviva di Palermo, non vuole che venga pubblicato il suo cognome per paura di avere problemi al lavoro, ma accetta di parlarci della sua storia di lavoratore a 1000 euro al mese, che fa emergere le condizioni lavorative, le mortificazioni, i tanti sacrifici e i dispiaceri di chi fa questo lavoro che, dall’esterno, può sembrare migliore di quello che è.

IL SUO RACCONTO

In molti pensano che dovremmo essere grati alla provvidenza perché abbiamo un posto di lavoro in un call center con contratto a tempo indeterminato. Di cosa ti lamenti? Sento dire spesso ad amici e parenti. Un mio cugino, che fa il cameriere, un giorno mi disse: lo facessi io il tuo lavoro. Stai seduto al coperto, parli al telefono e ti pagano pure. Chi non fa questa attività – racconta con tristezza Alessandro – non può capire quanto possa essere logorante un lavoro di questo tipo.

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Passo sei ore della mia giornata con una cuffia alle orecchie. Fino a poco tempo fa capitava anche di fare straordinario e le ore diventavano otto, a volte anche dieci. Le chiamate le ricevo, non le faccio. Chi chiama il 99% delle volte non lo fa per dirti quanto sei bravo, ma perché è arrabbiato: ha un problema e lo vuole risolto. Subito. Rispondo per una grande compagnia telefonica italiana che, se dovessi giudicare dai problemi che crea al cliente, non sceglierei mai come personale gestore. Ma ho risposto anche per pay tv, per compagnie aeree e tante altre. Ognuna di esse ha i suoi scheletri nell’armadio. Chi chiama il call center è inviperito e il più delle volte, coi sistemi che abbiamo a disposizione, risolvere il suo problema in tempi rapidi è impossibile. Serve una grande esperienza per cercare di mettere una pezza e tranquillizzarlo. E un miracolo per far sì che non richiami entro i prossimi tre giorni. Se lo facesse – e il più delle volte lo fa – aumenterebbe la “recall”, un dato che, per contratti tra committenti e outsourcer, non deve superare certi limiti, altrimenti si pagano profumate penali. Ma non basta. Al cliente, quando chiude, viene chiesto un giudizio sul nostro operato. E se il voto è basso saranno tiratine d’orecchio da parte dei team leader. La verità è che non siamo solo consulenti telefonici. Siamo anche psicologi, venditori di fumo, imbroglioni, imbonitori, ruffiani, perfino santi, visto che ogni giorno ci vengono chiesti miracoli.

RICHIAMI

Spesso non bastano nemmeno quelli, perché anche facendo bene il nostro lavoro di call center, il cliente è adirato e poco gli importa se la colpa è tua oppure no. In quel momento rappresenti l’azienda che gli sta creando un problema. Dopo un certo numero di voti bassi mi manderanno a fare un corso di aggiornamento, sfruttando l’ammortizzatore sociale. Ovvero, rientrerò in aula senza essere pagato o percependo pochi euro, nonostante la mia presenza in azienda. E, vi assicuro, che ciò capita spesso. Come capitano spesso i cambi di servizio da una commessa all’altra, intervallati, neanche a dirlo, da un bel corso aggratis.

TEMPI LUNGHI

Siete ancora convinti che il call center sia un bel lavoro? No, perché avrei solo cominciato… I miracoli di cui prima, vanno fatti entro tre minuti. E se per caso vengono sforati quei 180 secondi, iniziano le urla dei tl: “Abbassiamo i tempi!” E se ciò non basta, vengono a bussarti sulla spalla e ti invitano a chiudere, se è il caso a richiamare. Perché alla fine della giornata la media di parlato non può superare una certa soglia. E all’azienda non importa come fai, devi rientrare in quei parametri e basta. Sei un numero, non sei una persona e devi portare, a tua volta, numeri. Allo stesso tempo, però, devi garantire anche qualità.

PAUSE

La pausa 626 è prevista per legge. Ogni due ore, 15 minuti di stacco dal videoterminale. Io che sono un part-time a 6 ore, spesso sono costretto a portarmi il mangiare a lavoro, soprattutto quando il mio turno è a cavallo delle ore di pranzo o di cena. Immaginate quanto sia salutare e divertente assimilare un pasto in un quarto d’ora, al netto dello spostamento dalla postazione alla sala ristoro e dall’eventuale riscaldata nel microonde aziendale. Se ci mettiamo anche la lavata di mani e la bevuta di acqua, resta solo il tempo di ingoiare in un sol boccone. Anche perché è severamente vietato mangiare in postazione.

DIVIETI

E a proposito di divieti, ce ne sono altri oltre al non mangiare tra una chiamata e l’altra. Per esempio il cellulare, che non va solo spento, deve proprio scomparire dalla postazione. A quarantanni suonati, con due figli piccoli e una famiglia sulle spalle, in quelle sei ore devo scordarmi di tutto e pensare solo ai clienti. Ci sono colleghi che sono stati licenziati per aver usato il cellulare in postazione. Anche andare in bagno può diventare un problema se ci sono molte chiamate in corso. In teoria bisogna avvisare il team leader che si ha un urgente bisogno. Non lo fa quasi nessuno, ma è tra le direttive dell’azienda: niente tempi morti, ci si alza solo durante le pause 626. Se sul bagno si tende a chiudere un occhio, è invece obbligo assoluto non adirarsi col cliente. In questi 15 anni di servizio ho dovuto subire le peggiori offese della mia vita, senza poter rispondere adeguatamente alla scortesia e alla maleducazione di certe persone, che approfittano della distanza per offendere te e i tuoi cari, senza nemmeno conoscerti. Non è facile stare buoni, credetemi. Tempo fa un collega prese a calci cestini e porte per la rabbia di non aver potuto mandare a quel paese un cliente. E per lui ci furono severi provvedimenti disciplinari.

AMMORTIZZATORI SOCIALI

Pao, pas, cds, cigs, cig e chi più ne ha più ne metta. Sono solo alcuni degli ammortizzatori sociali a cui ha attinto Almaviva per evitare il tracollo. In questi anni ci hanno tolto di tutto, perfino scatti di anzianità e altri benefit. Nonostante i tanti licenziamenti di questi anni, i numerosi trasferimenti, gli esodi incentivati, nonostante il nostro stipendio non sia più quello di qualche anno fa, e i continui sacrifici che ci vengono chiesti, almaviva è ancora in crisi. Una crisi perenne. Sulla carta è colpa della delocalizzazione e delle gare al massimo ribasso sulle commesse, ma io ho il sospetto che ci sia una precisa intenzione, chiudere. Non ho il coraggio di licenziarmi, però incosciamente forse un po’ ci spero che questa azienda chiuda. So già che i colleghi che leggeranno mi criticheranno per ciò, ma sono stanco, non vedo come uscire da questo tunnel. Una psicologa tempo fa mi disse: hai una depressione latente, è tangibile, basta guardarti negli occhi. Non era il call center il lavoro che volevo, doveva essere solo un passaggio per pagarmi l’università. Non era questa la vita che sognavo per me e la mia famiglia, ho dovuto accollarmela perché in giro non c’è altro. Se chiudono sarò in mezzo ad una strada, ma non sarà per colpa mia. Proverò a rialzarmi e a fare un lavoro migliore, più dignitoso, forse lontano da questa città che nulla mi dà. Un lavoro più adatto agli studi che ho fatto e che possa rendermi finalmente un uomo felice.

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