“Torna a Palermo, hanno ucciso Libero Grassi”. E puoi avere la pelle indurita da tante giornate di cronaca, ma quando uccidono uno che conosci la cosa è diversa. Fu Antonio Di Giovanni, reporter del giornale L’Ora a darmi la notizia. In quei giorni – e per una storia che ha dell’inverosimile – ero tenuto sotto scorta e lontano da Palermo. Mi bevvi i chilometri che separavano San Vito Lo Capo da Palermo. E francamente non so perché. Reazione emotiva, questa doveva essere.
LO CONOSCEVO BENE
Io Libero lo conoscevo bene. Per essere precisi, meglio di come in genere un cronista possa conoscere un imprenditore che occupava con le sue parole d’accusa le pagine dei giornali. L’incontro fu casuale, lo sponsor di una mia trasmissione sul circuito nazionale Cinquestelle volle incontrarmi. Era una ditta che produceva abbigliamento casual, quelle felpe in ciniglia tanto di moda nel 1990, l’anno dei mondiali in Italia. Si trattava della Gafer ed era la Sigma, la fabbrica di Libero Grassi, a sfornare le felpe.
LE DOMANDE
L’incontro avvenne proprio alla Sigma, in via Thaon de Ravel. Ferrante, il patron della Gafer, ritardava e Grassi cominciò a fare domande sul nostro lavoro. Alcune molto precise e dirette. “Ma che avete combinato con la Gafer? Da un mese hanno raddoppiato la produzione, ho dovuto allungare i turni del personale per rispettare la consegna”.
IL CONSIGLIO
Non avevamo fatto niente di straordinario, ma quello era il tempo in cui le telepromozioni cominciavano a funzionare. E nel breve periodo, a livello locale, il risultato era garantito. Gli consigliai di non assumere altro personale ma di incentivare quello già esistente, perché di lì a poco il volume di consegna sarebbe di nuovo sceso.
FAMMI UN’INTERVISTA
Passò l’estate e un giorno ricevetti una telefonata inaspettata. Era un operaio della Sigma, un’amicizia consolidata sui campetti di calcio anni prima. “Puoi venire oggi in fabbrica? Il signor Grassi vuole parlarti”. Quell’incontro cambiò il senso della nostra conoscenza, da casuale a complice. Libero mi parlò della sua situazione, delle richieste di pizzo, della sua stanchezza e della voglia di chiudere. E poi la richiesta di aiuto: “Non conosco giornalisti e voglio che tutti sappiano cosa sta succedendo. Fammi un’intervista, vediamo che succede. O la smettono o mi sparano”.
LA DENUNCIA
“L’intervista la facciamo, ma non basta. Organizziamo anche una conferenza stampa in fabbrica”. Questo fu il mio consiglio. Andò come sperato. L’intervista televisiva aveva fatto breccia, molti colleghi si chiesero chi fosse questo pazzo (coraggioso lo diventi da morto, ma allora se denunciavi, pazzo eri considerato), altri, abituati a trattare i fatti di mafia con grande perizia, amplificarono quella denuncia.
LA LETTERA AL GIORNALE
La lettera al Giornale di Sicilia, la famosa “Caro estortore…” fu di una forza dirompente. Fatevelo dire da qualche inquirente dell’epoca, non c’era nessuno che denunciava il pizzo. Pagavano tutti, poco o molto, ma tutti. Le estorsioni vivevano allora uno dei picchi massimi nel fatturato della mafia.
CONTATTO SOTTO TRACCIA
Da allora e per i mesi successivi ci sentivamo con regolarità, ma sempre sotto traccia, perché mai dare la sensazione di avere un canale privilegiato con un cronista, peraltro non specializzato nella cronaca nera. Fu un altro consiglio che tenne sempre a mente. La sua seconda richiesta d’aiuto, nella primavera del ’91.
IL CONTATTO CON LA POLITICA
Conducevo un talk sulle imminenti elezioni regionali. Incontri tematici tra i leader dei partiti e rappresentanti delle categorie produttive, delle parti sociali e del mondo della cultura. Grassi mi chiese di fargli incontrare “quelli del Psi e della Dc”. L’idea era quella di chiedere una legge a sostegno degli imprenditori vessati dalla mafia. “E’ un tentativo che devo fare io, perché nessuno si muove”.
LA SPERANZA
Uscì dal Jolly Hotel, scenario di quelle trasmissioni, con la speranza di aver capito male. Il colloquio avvenne in una saletta riservata. E c’erano i futuri presidente e vice presidente della Regione. “Mi hanno detto sì su tutto. Ma secondo te mi prendono per i fondelli?”. Ebbe la bontà di non attendere la risposta.
LA PRESA PER I FONDELLI
“Ti hanno chiesto il voto?”. Certo, fu la risposta di Libero. “E cosa hai risposto”. “Che avrei votato per loro”. “Loro chi?”. “Per tutti e due…”. Mi ricordai di questo siparietto il giorno del primo anniversario della sua scomparsa. Mi ricordai delle sue perplessità di quel giorno e del surreale dialogo sul voto. E mi chiesi: chi ha preso per i fondelli chi?
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