“Sfascerete tutto… Se pensate di tirarla su così sfascerete tutto…” Prima che gli operai si mettessero al lavoro, sul pontone gru, qualcuno sulla banchina gliel’aveva pure gridato…Ma niente… Gli artigli della gru si abbassarono rapidi a ghermire quel poco che si vedeva occhieggiare fuori da quell’acqua verdastra e venefica. Si sentì il rumore di un enorme biscotto spezzato. La Matilde Fiore finì così, sbriciolata, in un grottesco carosello galleggiante di schiuma e fasciame ammorbato.
LA PRINCIPESSA DEL MARE
Era uno degli sedici relitti che da decenni languivano affondati o semi-affondati nelle acque putride della Cala. C’erano rimorchiatori, draghe, motonavi, chiatte, pescherecci, persino un bacino di carenaggio che nel tempo era diventato parte del paesaggio urbano. Erano relitti dimenticati, abbandonati, figli di armatori falliti o scomparsi. Morì senza l’onore delle armi, la Matilde Fiore. E fu il più insopportabile tra gli oltraggi, perché lei non era un relitto qualunque: lei del mare era stata una principessa.
IL SOGNO DI DUE UOMINI
Era una barca di rara bellezza, di eleganza e sinuosità femminili; una due alberi armati a goletta con 60 metri quadri di velatura, lunga poco meno di 30 metri fuori tutto e con sottocoperta un motore Ansaldo da 80 cavalli. Ma era soprattutto il sogno realizzato di due uomini, Paolo e Salvatore Caruso, padre e figlio. Era il ’45. Il porto di Trapani, la loro città, era una spianata di macerie ancora fumanti. Anche il magazzino di forniture navali che era stato dei loro padri prima che loro non c’era più. Paolo e Salvatore guardavano il mare, guardavano in là, e si chiedevano come avrebbero potuto ricominciare.
LA NAVE GIOVANNA
In città mancava tutto. I due pensarono allora di avviare un business di trasporti marittimi, noleggiando le imbarcazioni di volta in volta, alla bisogna. Andò bene. Al punto che i due Caruso decisero il gran passo: armare una loro barca. La commissionarono al cantiere navale di Torre del Greco. A fine dicembre il sogno divenne realtà: si chiamava Giovanna Caruso, come la moglie di Paolo. Il viaggio inaugurale tra Catania e Genova, per trasportare un carico di arance. Ma nei quindici anni che restò in servizio quella barca trasportò di tutto quasi ovunque (una volta un carico di doghe per botti in Algeria, 18 terribili giorni e 800 miglia a lottare nel mare d’inverno).
IL SECONDO BATTESIMO
Poi – quando non era più tempo di velieri – la Giovanna Caruso passò di mano. I nuovi proprietari (trapanesi pure loro) la ribattezzarono Matilde Fiore. Di vendita in vendita, finì a Lipari, poi tornò a Trapani, passò da San Vito Lo Capo e infine giunse a Palermo. Qui avevano per lei grandi progetti; sarebbe dovuto diventare un lussuoso yacht da crociera. Ma il progetto affondò insieme alla Sailem di Benny D’Agostino, l’ultimo proprietario. Correva l’anno 1997.
UN VARO MANCATO
Da allora la Matilde Fiore restò a struggersi di rimpianti, attraccata al molo dell’Italnautica dell’ing. Cambiano, cui era stato nel frattempo affidato il progetto di restauro e restyling della barca. Era sempre lì quando iniziarono i lavori di bonifica di quella enorme discarica marina che era diventata la Cala. Si scoprì allora che la Matilde Fiore – ex Giovanna Caruso – era una barca d’epoca, quindi da salvare, restaurare e tutelare. Ci furono un paio di riunioni fra la ditta incaricata della bonifica, la Sovrintendenza del Mare, la Capitaneria di Porto, i vertici dell’Autorità Portuale.
REPERTO O RELITTO?
“Si tratta – aveva spiegato l’allora comandante della Capitaneria di Porto di Palermo, Ammiraglio Pace – di un veliero che veniva usato come barca da carico nei primi del ‘900. Ho già avvisato la Sovrintendenza del Mare e speriamo in un recupero dell’imbarcazione che rappresenta un esempio importante di archeologia industriale, che una volta restaurato potrebbe essere esposto in un museo”. Dichiarazioni d’intenti scritte sull’acqua, purtroppo. Perché l’incarico di recuperare il relitto (era stata perfino quantificata la cifra necessaria: 112.375,68 euro) fu affidato alla stessa impresa che doveva – con un pontone gru e dunque non esattamente con sistemi da monaci certosini – ripulire i fondali della Cala.
LA NAVE IN FRANTUMI
Finì come finì, infatti. Le ganasce brute del pontone afferrarono e sbriciolarono tutto. Si salvò solo la guancia destra della prua, insieme con un brandello di quella sinistra e poco altro. Quel che resta della Matilde Fiore – ripulito, assemblato e messo in piedi – costituisce adesso quella apparentemente incongrua e bizzarra istallazione che fa bella mostra di se sulla banchina della Cala che costeggia i ruderi del Castello a Mare, nel frattempo entrambi restituiti alla città.
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